Storie dal CNOAS di assistenti sociali lombardi

 

Addio Ada, mi hai regalato l’arcobaleno

Mi ha sempre detto che sarebbe dovuta venire al mio matrimonio, che aveva voglia di vestirsi bene per vedermi sposata; poi c’è stato il periodo in cui ha provato a cercarmi marito, nello stesso modo in cui io cercavo di convincerla ad accettare un’assistenza domiciliare.

Ada 84 anni portati alla grandissima. La donna che ha vissuto con una gallina, che ha visto la sua casa essere ripulita da cima a fondo dai ladri almeno tre volte e con la stessa tenacia ha ripreso a fare sempre la sua bellissima e selvaggia vita. Ho tentato ogni strategia possibile, l’ho rincorsa per le campagne, l’ho accompagnata in almeno quattro strutture per ricoveri temporanei, abbiamo provato i pasti a domicilio e i centri diurni. Niente le andava bene, bene come la sua solitudine.

Il nostro primo incontro è stato paradossale, lei che cercava di tenermi lontana (fisicamente parlando) e io che mi avvicinavo stuzzicata dalla sua indisponenza.  È finita che ero l’unica a cui si affidava.

Anche quando l’ho accompagnata l’ultima volta in ospedale, per l’operazione al seno, che lei si ostinava a non voler fare. Oggi le scrivo. Le scrivo perché non posso salutarla.

Ho appena ricevuto una telefonata dal Pronto Soccorso di C.  che mi avvisa che è in coma, a causa del Covid. La ragazza dall’altra parte del telefono mi accarezza da lontano. Usa una grande dolcezza e mi chiede se sono l’unica persona che si prenda cura della signora Ada.

Non riesco a parlarle.

In 3 anni di conoscenza se una delle due avesse mancato il solito appuntamento in Comune, una andava a cercare l’altra. Per assicurarsi che stesse bene. Ho stupidamente chiesto all’operatrice dell’ospedale che mi ha chiamata se fosse stato possibile salutarla, almeno un’ultima volta.

E adesso capisco la fragilità umana; l’idea di poter fermare il momento, di poter restituire un po’ di pace a sé stessi prima che agli altri. Il dolore che ti dà il diritto di fare domande apparentemente stupide: “posso salutarla”.

Sono un’Assistente Sociale che ogni giorno lavora sul territorio di due comuni della Lombardia e ogni giorno mi sveglio e penso che sia una fortuna poter riempire la propria esperienza di vita con persone talmente “colorate” da regalarci l’arcobaleno.

Andrà tutto bene, non lo so, sicuramente tutto quello che era “bene” continuerà ad esserci e a rendere la mia professione un continuo crescere di emozioni e conoscenza.

“Se vedum giuvedè Ada, fai la brava” e buon viaggio.

K.D. Lombardia

(Ndr. Martedì 12 maggio, nel rispetto delle norme di contenimento del Covid-19 si sono svolti i funerali della signora Ada)


Ringrazio di essere viva. Tornerò presto al lavoro

Mi sono rinchiusa nella mia paura e nel mio dolore. La sensazione che nulla potesse rassicurarmi mi ha oppressa per molti giorni mentre, piangendo spesso, ho aspettato che il tempo passasse, fra un controllo e l’altro, fra speranza e sconforto.
Nulla sembrava confortarmi ma ogni cosa doveva andare bene perché ho ancora tanto da fare per me stessa e per i miei figli, entrambi lontani. Vorrei proteggerli dal dolore, vorrei stare ancora accanto a loro ed assicurarmi che questa malattia non abbia la forza di ferirli.
I rapporti, nella vita quotidiana, avvengono solamente attraverso la lontananza, la mascherina e i guanti, di chi si prende cura di me fuori dalla mia temporanea camera da letto, lontana dalla mia casa. Vengo svegliata ogni giorno con determinazione, con energia. Non sono ammessi i “no” per una colazione che molte volte non vorrei fare, un pranzo che spesso non desidero e una cena che riesco a finire solamente prima del mattino.
In questi trentuno giorni non sono ancora riuscita a dormire la notte, neppure adesso che la mia salute è migliorata. Vado a letto solamente quando è molto tardi, con un maglione di lana, senza togliere gli orecchini. Mi metto sotto le coperte che ho steso sul piumone del letto in modo trasversale per ricordarmi che io sono lì solo provvisoriamente, per far finta di non essere ammalata. Ascolto i dolori del corpo e la paura e all’alba, quando sento gli uccelli cantare, sorridendo all’arrivo di un nuovo giorno, ringrazio per essere viva e mi addormento.
Non riesco a lavorare né a studiare. Qualche volta, faticosamente, leggo informazioni che mi fanno riflettere come persona e come professionista.
Affannosamente aspetto ogni giorno i dati della Protezione Civile come se la guarigione dell’Italia potesse favorire la mia guarigione.
Ma il mondo sta male e, per questo motivo, una parte di me non guarirà mai. Una parte di ognuno di noi non guarirà mai più perché sentiremo sempre, nelle parole di chi ha vissuto questi mesi, il dolore di chi è morto, disperatamente ed in solitudine, senza che si potesse fare qualcosa.
Credo che questo grande mondo, impegnato in un processo di faticosa guarigione, meriti un personale, rinnovato e tenace sforzo nella ricerca di nuove energie che mi consentano di ritornare presto alla mia vita, alle persone che amo ed al mio lavoro.
Credo che ognuno di noi debba provare ad amare questo mondo malato prendendosene cura, rispettando gli altri e il futuro della nostra terra. Per fare in modo che, tutto l’impegno di coloro che hanno lottato per salvarsi e salvare le nostre vite, non venga sprecato.
Aspetto di tornare a fare l’Assistente Sociale perché sono felice quando faccio il mio lavoro e perché, dopo questa esperienza, so di avere qualcosa in più da offrire. Sono certa che neppure questa volta avrò il potere di salvare la mia parte di mondo ma farò quello che mi sarà consentito per provare a renderla migliore.
Ringrazio, con tutto il cuore, le persone che mi sono state vicine ogni giorno con i loro messaggi e le loro telefonate perché hanno alimentato la mia speranza confermandomi che, fuori dalla mia stanza e al di là del mio mondo irreale, la vita sta lottando per ritornare a risplendere.

M.C. Lombardia


La pandemia dei sommersi emarginati, dimenticati

Sento i miei passi battere sull’asfalto, ogni mattina, nel silenzio assordante di questa Milano così surreale. Non sembra vero, ma da tre mesi riesco a trovare parcheggio a pochi metri dall’ufficio. E sempre le solite facce, i tanti volti noti già in fila di prima mattina per ritirare il farmaco. I dimenticati da questa pandemia. Figli di nessuno che abitano le strade, l’uno accanto all’ altro, ogni notte sotto le stelle in una Milano che risuona di sirene e che ha chiuso i dormitori. “Buongiorno dottore”, “ Buongiorno”.

Temperatura: 36,2. Mascherina, gel e caffè. Ormai è un rito. Accendo il pc, apro la posta, guardo l’agenda. Anche oggi come ogni giorno incontrerò sguardi, ascolterò storie. Molte conosciute, qualcuna ancora  ignota.

Squilla il telefono, P. è ricaduta e ha tanta paura. L’isolamento di questi mesi ha amplificato la sua solitudine, una dolorosa malinconia, un freddo abbraccio che le ghiaccia le ossa, le viscere. “Che dici Patti, fai un salto qui per quattro chiacchiere? “  “Va bene, ma mi offri un caffè. Non c’è un fottutissimo bar aperto”. “Ti aspetto”.

Accendo Skype, E. è lì pronto ad aspettare la mia chiamata. “Ciao E.” “Buongiorno S.”. Il tempo vola, parlare con lui è sempre bello, rigenerante. Ammiro la sua capacità sferzante di ironizzare su di sé  e sulla vita. “E’ il tuo fattore protettivo, custodiscilo”. La pandemia, a lui ha fatto solo bene, la quarantena ha consolidato la sua astinenza. “Non gioco da 75 giorni, e non mi manca”. La psicosi collettiva ha come normalizzato le sue ossessioni, lui che è un ossessivo-compulsivo da manuale. Scherziamo.

Chiudo la chiamata, è arrivato il nuovo paziente. H. è disorientato, spaventato. Sa di aver toccato il fondo ed è un fiume in piena. Mi racconta la sua storia e di come sia arrivato qui a chiedere aiuto. A volte mi chiedo come possa essere possibile. Solitamente mi commuovo per molto meno a casa, sul divano mentre guardo un film. Eppure è così.

S. è già fuori dalla porta, mi aspetta in piedi col suo zaino in spalla, il trolley e le innumerevoli borse. Da qualche mese sono la sua casa, tutto quello che ha. Non vuole niente dice, vuole solo parlare ma i suoi occhi dicono molto di più. Non è vero che sta bene, è disperata e la sua situazione mi fa sentire impotente. E’ una bambina di 50 anni, nata uomo in Brasile. Una storia di abusi, violenze. Una vita di dolore che ha provato a cancellare con l’alcol e con la cocaina. Una vita salvata in extremis solamente dal carcere. E poi ancora le ricadute. Per lei, transessuale, non ci sono comunità disponibili ad accoglierla, soprattutto in questo momento. Forse una luce in fondo al tunnel, questione di un mese, ma non ho avuto il coraggio di dirglielo per paura di disattendere, per l’ennesima volta le sue aspettative. Accenna un sorriso, mi consegna un foglio. Il giudice ci ha ascoltati, è nero su bianco: S. non può e non deve essere espulsa. L’Italia deve concedergli il permesso di soggiorno. Un volontario mi ha anche recuperato un cellulare e dei libri, è poco ma le ho cambiato la giornata. “Ho sentito suor C., domattina alle 8 puoi andare a far la doccia, ti hanno trovato anche un paio di occhiali”.

Nel frattempo è arrivata P. non ci diciamo niente, ci capiamo ormai. Lei si siede, vado a prendere il caffè e torno. Squilla il telefono, è la comunità di E., vuole parlare con me “Se non ti chiamo io tu non ti fai sentire” “Ma perché so che stai bene, passata l’emergenza vengo a trovarti”. E poi C., G., E.

Famiglie assenti, tormentate, violente. Sono delinquenti, vittime, rapinatori e rapinati, padri e figli. Donne mai state madri e figlie orfane d’amore. Persone violente e violentate, vittime di una malattia che le accompagnerà per sempre.

Ed è così ogni giorno, storie a pezzi. A noi operatori l’ingrato ruolo di provare a ricomporre i puzzle, riallacciare i rapporti, creare ponti, agire il cambiamento. Gioiamo per i loro successi e dimentichiamo talvolta troppo presto le loro sconfitte. Lo facciamo per tutelarci, o meglio ci proviamo. Qualche volta, spesso, piangiamo.

Sono vittime di una pandemia che esiste da sempre. Che semplicemente non abbiamo mai voluto vedere. La pandemia dei sommersi, degli emarginati, dei dimenticati dalla società. Quest’emergenza non ci ha reso migliori, non ci ha cambiati di una virgola. Perché adesso il rapporto continua ad essere impari, anzi sono ancora più invisibili.

Rispondo alle ultime mail, qualcuna la lascio da leggere. Oggi non ce la posso fare, risponderò lunedì. Spengo il pc. Abbasso le tapparelle. Spengo la luce su quel palco invisibile chiuso tra quattro mura, dove anche oggi ho recitato la mia parte. Me ne torno a casa con 2 regali. Ho un vasetto di salvia e un peluche. Sono ricco.

S.B.  Milano


E il neonato trovò casa in Smart Working

Caro Ordine vorrei raccontarti una storia, una tra tante, una tra quelle che tutti in questo periodo stiamo vivendo da operatori del sociale. Anche noi, qualsiasi sia il nostro ambito di intervento, nonostante l’onda devastante del virus, non ci fermiamo, ci ri- inventiamo nuovi strumenti di lavoro, nuove modalità comunicative.

Lavoro da anni presso un servizio tutela minori. Comincio ad appartenere alla generazione di colleghi “ maturi” e mai avrei pensato di organizzare il collocamento di un neonato da casa mia, in Smart Working. Sì perché i provvedimenti di un’ Autorità Giudiziaria di devono applicare anche quando c’è in corso una pandemia mondiale e perché un bambino così piccolo è doppiamente a rischio in un reparto ospedaliero, durante un ‘emergenza sanitaria.

Scrivo questa storia perché vorrei poter condividere con chi mi leggerà come, almeno questa volta, il lavoro di rete sia stato possibile e produttivo. Sono servite ore di lavoro dalla mia camera da letto; due telefoni cellulari, uno personale e uno di servizio; un computer e tante tante e- mail; la pazienza di colleghe e operatori del Terzo Settore che mi hanno ascoltato, quando spiegavo loro la situazione; video chiamate; una responsabile in cabina di regia; uno scanner e una stampante che non aveva più l’inchiostro; tanta tanta predisposizione ad accogliere il nuovo, abbracciando modalità di comunicazione meno formali e più dirette, ma al contempo empatiche.

Ho conosciuto la famiglia di pronto intervento, fortunatamente già “formata” in precedenza dall’equipe di riferimento, in video chiamata. Mai avrei pensato di poter effettuare un passaggio così delicato in una tale situazione. Ma ha funzionato. E ha funzionato rispolverare vecchie relazioni professionali e con questo intendo relazioni umane che, non mi vergogno a dirlo, hanno permesso di ottenere documenti che in un regime di normalità, avrei ottenuto dopo settimane.

Ecco la mia storia, fatta di dolori da accogliere e contenere, di pensieri da riordinare per prendere la decisione giusta, di copertine da recuperare in qualche modo, di mascherine, guanti e saluti distanziati.

Di un bambino che non ho nemmeno toccato e che mi è stato passato da una culla di ospedale, direttamente in un ovetto per auto. Tutto senza nemmeno entrare in reparto per paura di contagiarlo, di contagiare e di essere contagiati .

A volte sono grata alla mia professione per quanto di straordinario mi pone davanti. A volte no, ma questa è un’altra storia. Grazie.

G.M. Lombardia


“Vuoi tu essere assistente sociale?”. “Sì, lo voglio!”

A me piace il mio lavoro.

Sono una di quelle fortunate persone che possono affermare con orgoglio di amare profondamente la propria professione.

Oggi, tuttavia, è un po’ più difficile svolgerla.

Arrivo in ufficio e il telefono suona.

È un’anziana signora, la conosco, mi chiede aiuto per avere la spesa a casa. Il tono di voce non è il suo di sempre. “È preoccupata?”, le chiedo. “Eh un po’ cara. Tu no?”, controbatte lei.

Non so cosa sia meglio risponderle.  Scelgo di essere onesta. “Un po’ sì.  Sono giorni strani, insoliti. Ma andrà tutto bene signora, se lei ha bisogno di qualcosa mi chiami e vediamo di risolvere il problema insieme. Cosa sta facendo in questi giorni?”, penso che magari scambiare due parole la aiutino a trovare un senso di normalità. Forse. Non so. Nessuno all’università mi ha detto che avrei dovuto affrontare gli effetti socio-collaterali del covid-19, nessuno.  Non so come si fa. Improvvisiamo e via.

“Guardo la televisione. Ma te lavori lo stesso?”. Procede la signora. “Eh sì, se no lei chi chiama se ha bisogno di qualcosa? Mica voglio lasciarla da sola sa!”. Ride. Il tono della voce torna quello di sempre.

Suona di nuovo il telefono.

Ancora.

Un’altra volta.

Tante persone sole, altre che hanno bisogno di assistenza, di pasti a domicilio, di recarsi a fare la radioterapia in ospedale in giorni in cui i trasporti sociali vanno in tilt. Problemi su problemi, così mi ritrovo con un cubo di Rubik fra le mani: qual è la soluzione?

Provi e riprovi, fai ipotesi, chiami Tizio che ti consiglia di parlarne Con caio, alla fine un modo si trova.

“Andrà tutto bene”, ripeto a molti. “Adesso troviamo una soluzione”, rassicuro altri.

“Non si vergogni a piangere, lo facciamo tutti sa?” mi trovo a dire a una donna che ha le sue ragioni per stare male.

Apro le finestre. Disinfetto la scrivania. Metto l’Amuchina. Respiro un po’ senza mascherina, ah… che buona l’aria.

Si ricomincia: telefono, parole, annotazioni, cubo di Rubik.

Ed è soltanto l’inizio.

È come nei migliori matrimoni, questo lavoro: ci sono giorni in cui lo maledici, ma infondo sai che risponderesti ancora “Sì, lo voglio!”

S.B. Lombardia


Caro Ordine, ti scrivo da Bergamo

Caro Ordine, tu che sei la mia famiglia professionale di appartenenza, sono C. Z. un’assistente sociale che lavora e vive in provincia di Bergamo rivestendo questo ruolo professionale da circa dieci anni.

Come impiego lavorativo sono inserita in due comuni della provincia gestendone l’intero segretariato sociale. Scrivo qui come una ragazza scrive alla propria famiglia come se fossi dall’altra parte del mondo (come si faceva una volta che non c’erano né cellulari, né video chiamate, né tantomeno Skype o WhatsApp).
Io scrivo una lettera, anzi una email, in una sera di metà marzo di questo – come dice il detto popolare – “anno bisesto anno funesto”, 2020.
Io e tantissimi miei colleghi, alcuni di questi carissimi amici, stiamo vivendo giornate con tantissime lacrime negli occhi, l’impotenza nelle mani, nel cuore, nel telefono, nelle email ….

Viviamo soli sai, Ordine!
Dentro di me avverto la sensazione della solitudine che mai come ora si è impossessata di me. Ormai anche i nostri instancabili volontari  – quelli che non sono malati o che non sono venuti persino a mancare –  fanno quello che possono. Le esigenze sono tantissime e si ritrovano in alcuni casi a dover portare pazienti dializzati facendo lo slalom tra i deceduti al pronto soccorso degli ospedali dell’intera provincia di Bergamo.
La Rete Sociale, caro Ordine professionale che tu ci hai insegnato che dobbiamo costruire ed alimentare come fa l’acqua per un piantina in continua crescita, è messa a durissima prova. Ogni famiglia ha dolore al suo interno, ha urgenze a cui dover rispondere. Ogni chiamata che riceviamo è pervasa da paura, da solitudine e mi rendo conto che l’unica cosa da fare ora è RESISTERE.

Noi qui a rispondere e/o a non saper dare risposte (una cosa che personalmente mi ha sempre fatto star male ed ora più che mai) soprattutto ad una consistente fetta di popolazione che chiede aiuto, elemosina conforto. Credo che il mio ruolo sia quello di dare serenità dove possibile, una spalla anche virtuale su ci appoggiarsi. Ma anche quello di far arrivare al domicilio un pasto pronto, la spesa, i farmaci per poter appunto SOPRAVVIVERE. Nulla di più.

Vivo in questi giorni il mio mestiere – che amo alla follia – svuotato di tutti gli strumenti (non esistono più visite domiciliari, colloqui, riunioni, non si riescono ad attivare servizi a supporto della domiciliarietà).

Siamo donne e uomini che cercano con una risposta, tramite telefono, di dare conforto, proviamo ad ascoltare i pianti dei famigliari che non hanno potuto nemmeno salutare un proprio congiunto.

Caro Ordine professionale mi rivolgo a te come una mia madre lavorativa, perché so che solo tu puoi sostenermi, aiutarmi e finita questa guerra, ascoltami se possibile anche abbracciami: fammi sentire che appartengo a qualcuno.

Così che anche la notte che stiamo attraversando, non sarà solo stata portatrice di brutali e bestiali assenze, ma anche di ritrovamenti di una comunità professionale che c’è, nonostante tutto. A guerra finita Bergamo ti aspetta ed insieme ripartiremo dalla macerie ricostruendo la nostra amatissima rete e le nostre comunità.

Andremo avanti con lo sguardo e le braccia verso chi l’affetto, le risorse, la serenità non le ha. Con stima

C.Z. Bergamo


Ma era una debolezza la sua?

Un ragazzo, una mattina, era entrato e si era accomodato dall’altra parte della scrivania senza stringerle la mano né sorriderle. Ma queste cose Sara non le pretendeva, quale cortesia bisognava usare con un’assistente sociale pronta a scavare nella tua vita senza poi magari saperne richiudere le buche?

Indossava, il ragazzo, un dolcevita nero e sembrava ermetico come quel collo alto e ruvido che gli toccava quasi i lobi delle orecchie, in uno dei quali aveva una perla nera. Ma forse il ragazzo, dopotutto, non la considerava una ficcanaso, perché dopo una minima riluttanza iniziale, alcune domande riuscivano piano a aprirsi un varco.

Era lì, davanti a Sara che lo conosceva da dieci minuti, a riconoscere certe sue debolezze, a ringraziare chi lo aveva aiutato in passato – elencando nomi e cognomi di persone che forse solo poco tempo prima aveva trattato rudemente -, soprattutto a raccontare che la sua famiglia era perbene, ma che suo padre non era niente affettuoso. Per questo quando andava a dormire si domandava come mai non ricevesse mai un abbraccio. Gli occhi del ragazzo guardavano la scrivania, un piano bianco su cui batteva il sole. A volte il ragazzo si sforzava di sostenere lo sguardo di Sara, intanto lei si chiedeva chi facesse maggiore sforzo per non annegare negli occhi dell’altro.

Sara aveva l’impressione che se avesse provato a raccontare a qualcuno la tenerezza che la invadeva durante quel colloquio, la commozione anche, si sarebbe sentita nuda, e consapevole di non poter capire fino in fondo quali corde interiori aveva raggiunto il ragazzo. Le sembrava, a volte, una questione di corazza, come se per poter ascoltare a lungo tanto dolore bisognasse costruirsi una corazza forte. Per sopravvivere; era convinta che la maggior parte dei suoi colleghi portasse una corazza più resistente della sua. Era anche convinta, d’altro canto, che l’empatia fosse il modo più funzionale di instaurare una relazione, e che la relazione fosse la parte fondante di un processo di aiuto.

Credeva, Sara, che fosse una questione di distanza emotiva, cioè di quanto nel profondo si lasciasse entrare una persona, ma anche di velocità: quanto velocemente riuscivano a uscire da lei le persone che condividevano i loro disagi? Quanto ci metteva a rimetterle a fuoco e a ridimensionare i loro bisogni?

Aveva accompagnato il ragazzo alla porta, l’aveva salutato cordialmente, trattenendo l’impulso di abbracciarlo forte. Poi, mentre tornava a sedersi, le lacrime erano lì che spingevano dietro gli occhi, forse era solo colpa della luce intensa!

Lo sguardo muto e veloce del suo nuovo collega che aveva notato i suoi occhi lucidi l’aveva sorpresa e l’aveva fatta sentire sbagliata, come se lui potesse permettersi di essere non giudicante solo con gli utenti e non con lei, come se la sua fosse una reazione curiosa e fuori luogo, come se un’assistente sociale non potesse avere una debolezza. Ma era una debolezza, la sua?

R.G. Lombardia