Riconoscendo sempre il principio di presunzione di innocenza e attendendo la conferma della veridicità delle informazioni riportate, le notizie che arrivano dal carcere minorile Beccaria non solo ci preoccupano, ma ci spaventano, come comunità professionale e come cittadini.

Lo storico “Beccaria” è stato un carcere modello, un luogo dove il principio rieducativo della pena era praticato e reale e le recidive contrastate con progetti educativi, formazioni e tirocini professionalizzanti.

Oggi il Beccaria sembra essere un luogo dove la violenza istituzionale reiterata ha sostituito il “progetto individualizzato del minore”.

Come comunità professionale non solo non accettiamo la cultura del “buttare via la chiave”, ma aborriamo la prassi della sopraffazione generalizzata e della violenza giustificata dall’assenza di personale e di risorse. Le responsabilità penali sono sempre personali, ma ci interroghiamo sul perché la polizia penitenziaria non sia né formata né vigilata, perché la struttura sia fatiscente e perché l’organico educativo sia la metà del necessario. Ci chiediamo perché, a fronte di decine di segnalazioni, il sistema penitenziario non abbia mai affrontato il problema.

Siamo preoccupati e ci chiediamo come si possa pretendere che questi ragazzi escano dal carcere con competenze maggiori per affrancarsi dagli ambienti devianti, se in carcere subiscono ogni tipo di sopruso e di violenza.

Come assistenti sociali non siamo previsti nella pianta organico dell’istituto ma siamo chiamati a relazionarci con i ragazzi e a leggere i loro bisogni, ad accompagnarli in un percorso che li allontani da un mondo di devianza e violenza, non a consegnarli ad esso.

Chiediamo a gran voce di poterci riappropriare del nostro ruolo di aiuto al cambiamento, di poter tornare a essere coloro che sostengono una trasformazione positiva, chiediamo l’attenzione dovuta e giustamente pretesa per questi ragazzi.

I colleghi dell’USSM, come tutti i colleghi assunti dal Ministero della Giustizia, stanno aspettando lo svolgimento del concorso rallentato ormai da tempo, per una serie di motivi, per “poter esserci” all’interno di un sistema di protezione e di aiuto, valorizzando altresì l’importanza di ciò che viene descritto nell’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Ci chiediamo che cosa ancora debba accadere perché si pensi a ristrutturare il sistema carcere e a riconoscere la dignità alle persone detenute che, lo ricordiamo, non smettono di essere cittadini.